venerdì 26 dicembre 2014

Caciara e postumi

La mia famiglia non è mai stata attenta al dettaglio, alle raffinatezze, all'apparenza. Il nostro Natale è sempre stato molto poco fèscion. Del resto sarebbe stata impresa alquanto ardua renderlo tale. Fin quando mia zia 90enne è stata tra i vivi lo festeggiavamo nella sua casa - cucina. Otto metri quadri, quattordici persone. E poi parlano del sovraffollamento delle carceri. I posti venivano assegnati a seconda della taglia seguendo meticolosamente l'alternanza ciccione - magro per evitare l'immobilismo dell'intero sistema. Le cuoche sedevano dalla parte dei fornelli e ci si scaldava col fiato e col fuoco. Pare il libro Cuore ma non sto esagerando. Prima del pasto si recitava il Padre Nostro e poco prima della mezzanotte mia zia abbandonava il campo per andare alla messa.

Era bello.

Da tre anni il Natale ha cambiato location. Da due lo festeggiamo qui, a casa mia. Nonostante l'impegno, gli stickers alle finestre, le lucine e la tovaglia barocca rosso - oro, regalo di mia madre, continuiamo ad essere tutti molto poco féscion. Non abbiamo centritavola ne alberelli di biscotti glassati, non abbiamo segnaposto, siamo disordinati e caciaroni. Pentolame sparso, buste piene, buste vuote, bottiglie, pandori, panettoni, gianduiotti, calamari fritti, insalata di mare, noci e miele, fichi secchi. Tutto sulla stessa tavola, per terra, sui mobili. Senza ordine ne criterio.

Però mi piace.

Non posto foto della mia tavolata perché non reggerebbe il confronto. Il mio Natale lo tengo per me. Costruisco ricordi senza l'ausilio della pubblica condivisione. E ne vado fiera.

Continuo a trovare banali e superficiali le lamentele su quanto s'è magnato. Trovo raccapriccianti le foto di gente che se sfonna.

Si riduce davvero tutto a questo?

Stamattina io e l'USI siamo rimasti a letto fino a tardi. Abbiamo visto due puntate della nostra serie preferita, fatto colazione con caffè e pandoro, saltato il pranzo. Il Natale stanca anche quando non è féscion, così ci riprendiamo la nostra intimità di piccola famiglia, ci riappropriamo del nostro tempo, delle nostre abitudini, della normalità.

Mancano una manciata di giorni alla fine di quest'anno. Non ne sentirò la mancanza, ho poco da ricordare solo molta voglia di ripartire.

lunedì 22 dicembre 2014

Innamorarsi

Con lo smalto rosso semipermanente mi sento un gran figa.

Donne, basta così poco per renderle felici. 

Certo, se la tipa occhialuta in maxi tuta anti-stupro avesse imbracciato una zappa anziché una limetta per unghie credo mi avrebbe fatto meno male ma il risultato, omessa la totale mancanza di delicatezza della suddetta, è apprezzabile e per nulla inferiore alle aspettative.

Ovviamente il pensiero di dover dipendere da qualcun altro per toglierlo mi rende inquieta. Che io sono una di quelle donne vecchio stampo che non cede alle moine dei centri estetici e preferisce il masochismo casalingo o, a limite, la cara vecchia lametta Gilette trafugata al marito.

Siccome, poi, ho deciso di non rinunciare al proposito faiga foervah ho persino prenotato il parrucchiere. Non il solito, molto molto economico, barbuto ottantenne con un principio di Parkinson rinominato, molto affettuosamente, da me e Sisters Edward mani di sforbice ma il vecchio caro (in tutti i sensi) Peppe. L'estroso, affettuoso, bravissimo hairdresser delle star de' paese. Il responsabile della mia dipendenza da piastra.

Come se non bastasse quella morigerata vocina che mi ha spinto a fare fioretti inutili e invalidanti del tipo niente Nutella e shopping per tre mesi è andata a farsi fottere.

I fioretti non servono a una beata minchia. Così ha detto. Testuali proprio.

Voglio un par de scarpe nove. Ho aggiunto quindi io.

Ordunque il mio animo mercataro mi sta spingendo verso bancarelle piene di balocchi sfavillanti e tante, tante scarpe, che si sa, noi donne siamo millepiedi.

Reagisco così alla fine dell'anno. Mi imbelletto, rinnovo, progetto. Sono estremamente banale, forse. O magari nascondo dietro shopping, smalti, lustrini e paillettes la paura di un ennesimo fallimento.

Quel che so per certo, è che quest'anno immobile in apparenza ha provocato grandi cambiamenti interiori.

L'ho iniziato da sola, disoccupata, disperata, instabile. Lo finisco in compagnia di una me stessa rinnovata, ritrovata. Non voglio più abbandonarmi, non cerco più di essere quella che non sono. Non sono manco più come prima, sono meglio.

Mi voglio bene. Bene davvero. Diavolo, credo d'essermi innamorata di me stessa.

domenica 21 dicembre 2014

Reciprocità

C'è il solito odore di disinfettante, le pareti pastello, il linoleum. Ci sono le porte scorrevoli e gli A4 affissi a mo di avviso sulle vetrate. Ascensori stretti e lenti, luci al neon.

Gli ospedali sono tutti uguali. Uguale è il dolore che trasuda in certi reparti. Quelli silenziosi, pieni d'occhi spauriti, di carrozzine e stampelle, di flebo, ciabatte, bottiglie d'acqua su comodini bianchi.

Ho compreso tardi il valore della visita. Ignoravo l'effetto benefico di quel tipo di conforto, soprattutto ignoravo la sua reciprocità.

Ho smesso di considerare la malattia come un ostacolo alla vita. Ne fa parte.

Ho pure smesso di bloccare le emozioni sulla soglia della mia espressività. Le lascio andare, lascio che traspaiano da piccoli gesti o grandi abbracci, da sorrisi o lacrime.

Mostrarsi fragili vuol dire, dopotutto, essere grandi, coraggiosi, maturi.

Ti ho abbracciata stretta, zia. E adesso mi sento un po' più forte pure io.

Basta che funzioni

Non sbagliarsi mai è estremamente faticoso, sopratutto quando sei la Beata Quartina e laggente si gratta le palle ogni volta che parli. Essere considerati pessimisti quando si è realisti ha quest'effetto. Non è che me la tiro, tantomeno mi porto zella da sola. E' che io so, conosco, analizzo, prevedo. E non è mica colpa mia se quel che prevedo poi accade.

Insomma il ciclo mi è venuto pure sto mese. E si è fatto sentire. Doloroso, scuro, scarso. Inizio a credere d'avere davvero l'endometriosi, più che altro inizio a sperarlo. Sarebbe una causa, un problema tangibile, vero, esistente e di conseguenza risolvibile. La lotta contro i mulini a vento la facesse Don Chisciotte, a me piace vincere.

E la mia piccola e personale battaglia sul Natale l'ho vinta. La di lui family ci farà l'onore della sua presenza il 25. Incazzarsi, puntare i piedi come una bambina, far valere le proprie ragioni serve. Hai voglia a dir di no, che la maturità e la tolleranza sono sempre le scelte migliori. Cazzate.

Con ogni mezzo e basta che funzioni. Questo sarà il mio mantra per il prossimo anno.

giovedì 18 dicembre 2014

Farfalle e uragani

Di positivo c'è che sto affinando le mie capacità di guida e orientamento nella grande città. Con poche piccole deviazioni, perlopiù causate da sensi unici ad minchiam e non rilevati del navigatore, sono arrivata a destinazione in anticipo e senza crisi di panico. Ho preso un caffè e trovato persino una profumeria aperta. Omettiamo il prezzo pagato per un rimmel L'Oreal perché mi sputerei in faccia da sola quindi, ecco, non inferite. Il pranzo dopotutto mi è stato offerto e famo finta che siamo andati a paro.

Le due carampane sono state pure simpatiche. La roscia, a dirla tutta, se l'è tirata una 'nticchia ma mi ha detto che sono bella epperciò è assolta, signor giudice.

La crisi c'è. Ma va.

Però vediamo se con un po' di pazienza riusciamo a fare qualcosa.

Meglio di niente. Meglio di quelli che promettono invano consapevoli di farlo. Tipo Capetto. Secondo le sue personalissime et erratissime stime adesso dovrei avere il mio bel culo parato da un contratto a tempo indeterminato da almeno un anno. E invece m'hanno mandato a casa. Stessa cosa, proprio.

Insomma si capisce che ho ripreso a tutto tondo la ricerca del lavoro? Suppongo di sì. Non è che vado all'EUR a farmi le passeggiate, io.

Ho pensato che aspettare la FIVET che verrà, forse, dopo una laparoscopia prevista, ariforse, tra mesi non ha senso, soprattutto se le finanze famigliari piangono miseria e io mi sento in colpa pure ad accendere i termosifoni.

Mettiamo in moto processi. E quel che verrà, verrà. Non è forse vero che  il battito d'ali d'una farfalla può provocare uragani?

Magari la gravidanza mi diventa un imprevisto, pensa che culo.


mercoledì 17 dicembre 2014

Il grido

Da questa mattina il mio umore è cambiato almeno una decina di volte, fortuna che ho smesso da quasi un anno le stimolazioni ormonali sennò qualcuno avrebbe certamente invocato un TSO e avoglia a spiegarli che non sono io la pazza infermiere, mi liberi subito!

Ad esser pazzi sono gli altri. Gli ottimisti, per esempio. Quando si mettono in testa di fartela prendere bene sono peggio del testimone di Geova alla porta quando hai fretta d'uscire o devi andare a cagare o eri già sulla tazza e ti sei alzata solo perché pensavi fosse il corriere con la collana strass di Zara che hai ordinato una settimana fa.

Da qualche mese mi succede una cosa strana. Io e il mio corpo, quel bastardo traditore, siamo entrati in sintonia o, meglio, abbiamo aperto un canale di comunicazione. Peccato sia unidirezionale, nel senso che lui decide cosa fare e me lo comunica ma si ostina a non recepire i messaggi che gli mando io, pacifiche proposte di collaborazione tipo suvvia apriamo un tavolo sulla questione gravidanza, sono certa che troveremo un accordo. Riesco a capire quel che mi succede, ma non è una bella consapevolezza. Persino riesco a immortalare l'esatto minuto in cui il progesterone inizia la sua inarrestabile discesa verso gli abissi dell'infertilità. Passa la tensione al seno, passano i sintomi premestruali e poi sbam! arriva il ciclo, l'ennesimo inatteso.

L'ho descritto così bene perché, guarda il caso, è successo proprio ora. Ed io navigo nel mio solito melmoso mare di disperazione e pessimismo.

Come se non bastasse domani, giorno x, dovrò alzarmi prima dell'alba, attraversare mezza Roma, incontrare persone, socializzare, apparire carina, educata, professionale. Elemosinare un lavoro che mi spinga ad alzare il culo dal materasso e dia un senso, seppur parziale, alla mia vita.

Perché no, non ce l'ha. Non mi basta sapere d'esser viva tutte le mattine perché non è questo che la vita dovrebbe essere.

Qualcuno in tivvù ha detto che le grida di dolore arrivano al Padreterno prima delle preghiere. C'avranno la corsia preferenziale. Le mie devono aver sbagliato strada, hanno imboccato la Cassia alle 8 di mattina.

Reggeme er moccolo, stasera

Siccome sono una tipa sveglia ho realizzato tardi troppo tardi di essere terribilmente indietro con i corsi obbligatori di aggiornamento professionale di quella qual certa professione che, guarda un po', non esercito. Così, oltre a lezioni on line e test di verifica con lo sbarramento al 90% (uno l'ho dovuto rifare TRE volte, proprio io che non sono mai stata bocciata all'università, shame on me) mi sono dovuta sorbire convegni con orari, location, argomenti e durate improponibili.

Se non altro ho avuto occasione di ingannare le attese passeggiando per quella Roma turistica, lussureggiante, dimenticata da chi, come me, vive in provincia o in periferia oppure usurata dagli sguardi abitudinari di chi la calpesta tutti i giorni, ignorandone la bellezza.

La grande, decadente bellezza.

Amo questa città, pure quando muore di traffico e di tangenti. Perché lei resta lì, imperterrita e maestosa




sognante,


 sorprendente,




poetica,




Amo questa città perché mi accoglie sempre. Come una madre chiassosa e generosa.

E' la mia casa a cielo aperto.

giovedì 11 dicembre 2014

L'imprevedibile

Certe volte credo d'esser stata contagiata dalla temuta sindrome dello blocco dello scrittore poi niente, mi metto qui e inizio a scrivere, così, di getto, senza manco pensarci su.

Sono una tipa strana ma questo lo si sapeva. Quel che invece non sapevo di sapere Socrate, sii proud of me, pliz è che sono pure imprevedibile. In realtà, forse, lo sapevo già ma solo ora che non ho un cazzo da fare ho scoperto il mio lato una cifra intimista e new age no, stolti il kamut ancora non me lo magno, non fate i gretini peppiacere me ne sono resa conto. 

Ieri, per esempio. Giornata strana. Mentre pulivo la macchinetta del caffè, attività che, non so perché, mi rende fiduciosa e ottimista insomma portatemi una carrettata de Bialietti ho deciso di imbellettarmi, uscire ed esplorare le torbide e fredde lande abruzzesi alla ricerca del regalo natalizio per l'USI, di qualche inutile aggeggio made in china per il presepe, degli ingredienti per una cheescake all'italiana e di un paio di calze a pois per me. Il terzo paio, per la precisione. Non durano 'ncazzo 'sti 20 denari.

Ho trovato tutto, ma con fatica. Sono tornata a casa dopo tredicotre ore e Biagio, ormai abituato alla mia costante presenza, ha smattato esibendosi in salti in alto e carpiati olimpionici. Il tutto, ovviamente, mentre io rientravo carica come un mulo da soma.

Forse l'iperattività di ieri è stata fatale, devo aver consumato tutto il mio bonus energie perché oggi, che avevo un sacco di buoni propositi, non ho fatto niente. Ma proprio niente niente. Manco 'na doccia. Mi sono sfamata con un'insalata pronta lattuga, pomodorini (due), noci e grana e ho guardato Harry Potter a letto. Letto che, per dovere di cronaca, è sfatto da quando mi sono alzata. La lavastoviglie è piena, i bidoni della spazzatura pure, peli e polvere mi mangiano viva e Biagio sbav... no scusate quello lo fa sempre.

Se la mia imprevedibilità e tutta 'sta manfrina del decidi le cose al momento, campa giorno pe' giorno etcetera mi piace quella degli altri mi urta.

Ho pianificato al dettaglio i miei prossimi appuntamenti e quando dico al dettaglio intendo che ho deciso pure gli outfit (sparateme) e poi quella adorabile mostriciattola che deve farmi le unghie ha visualizzato ma non risponde su WatsApp. Ma io dico. Manco un okkei. Niente di niente. Così io resto qui a stalkerarla on line manco fosse un bel sorco co' l'addominale tartarugato e la mutanda giropisello. 

Mio marito tornerà alle nove e trenta passate e visto che sono imprevedibile (l'avevo già detto?) e pure piuttosto annoiata sto persino pensando di pulire i cessi. Alle venti e trenta, mentre tutte le prevedibili, noiose, banali e maledettamente normali famiglie italiane cenano davanti al tiggì.

Questa è la mia vita gente. Misa che di regale non è rimasta 'na mazza.

martedì 9 dicembre 2014

All I want for Christmas

Il nostro primo albero di Natale faceva schifo. Lui era depresso, io arrabbiata e disillusa ma non volevo si notasse così fingevo forza e facili entusiasmi. Il risultato del mio impegno fu pessimo così come i miei sorrisi forzati da indolenzimento degli zigomi.

L'abbiamo comprato in un grande centro commerciale, senza troppa cura, tantomeno amore. Misura giusta, colore adeguato, palle rosse e oro come vuole la tradizione e nel rispetto della banalità.

Mi sentivo terribilmente sola. La voragine tra petto e stomaco stava assumendo proporzioni preoccupanti. Ero un vulcano borbottante pronto ad esplodere. Risentimenti tormentati, rospi ingoiati, rabbia repressa, parole mai dette. 

Ero problematica. 

A pensarci oggi ho rischiato grosso. Non che non abbia ceduto poi, anzi. L'ho fatto platealmente buttando fuori tutto da un giorno all'altro ma poteva andarmi pure peggio. 

Il nostro primo albero l'abbiamo montato l'8 ma smontato il 5. Il 24 l'abbiamo passato in ospedale, aspettando che nascesse una nipote che non conosco dalle viscere d'una persona che con buona probabilità mi odia. Pensavo alla mia famiglia. Mentre lì mi sentivo un'estranea loro mi attendevano, al caldo, con la tovaglia rossa e gli antipasti sul tavolo. Mancavo solo io, immaginavo la mia sedia vuota e l'ansia di mia madre. 

Il nostro secondo albero l'abbiamo montato in un posto diverso, ma quel Natale fu comunque orrendo. Stavolta mi era toccata una cena fredda in una casa dalle pareti lilla e una torta di compleanno con un maiale con su scritto uno. 

Quelle stesse persone a cui avevo dedicato tempo e immolato la mia vita manco mi avevano chiamata per sapere come stessi dopo il mio terribile incidente d'auto.

L'anno scorso ho deciso di cambiare. L'anno scorso ho deciso che vengo prima io, che il mio Natale è casa mia. 

E' andata meglio.

Non sarò mai una fan di questa festa programmata, ci si sente solo più soli e tutti sono più ipocriti. Ma quest'anno l'albero è bellissimo, ci sono stickers alle finestre e ho addobbato di rosso persino la lampada Ikea. 

La vita è quello che scegli. Io ho scelto di difenderla, di difendermi.

Io ho scelto di non fare quello che non mi va di fare. 

Il termine di paragone

Credo che in psicologia vengano chiamati meccanismi difensivi tuttavia, se questa non fosse l'esatta definizione scientifica, non mi sentirei in errore perché stabilisce, forse in maniera piuttosto banale ma appropriata ed intuitiva, quello che sono.

Si attivano ogni volta che il cervello percepisce una potenziale condizione dannosa per il benessere di psiche o fisico e ce ne sono di moltissimi tipi.

Possono essere banali o complessi, istintivi o studiati con precisione maniacale, fini o grossolani, standard o personalizzati.

Io ne sono affascinata.

Il meccanismo difensivo a cui la ZiaSanta fa ricorso più di frequente potrebbe essere definito elogio del macabro o delle altrui sfighe ed è un'evoluzione, manco troppo raffinata, del vecchio e comune adagio mal comune mezzo gaudio.

In pratica si fonda sul presupposto secondo il quale parlare delle disgrazie occorse ad altri quando tu stessa ne sei stata colpita aiuta a sentirsi meno soli, più forti, coraggiosi e in grado di superare l'ostacolo, di qualsiasi natura esso sia.

Ho assimilato per osmosi questa tecnica. Funziona. 

O meglio, funziona nella stragrande maggioranza dei casi a patto che il termine di paragone sia assolutamente congruo. 

Ed è proprio questo il punto. La falla. La buca dove l'asino incaglia lo zoccolo e casca. 

Se commetti il comune errore di sbagliare termine di paragone il risultato è pessimo, peggiori le cose moltiplichi rabbia, depressione, misantropia, istinti omicidi-suicidi. Crei un mostro.

Proprio lei, la mia mentore, la ZiaSanta ha di recente mandato all'aria le sue buone intenzioni quando ha tirato fuori la Betty.

Lei è una delle sbeffeggianti immacolate concezioni con cui io, da infertile, mi sono dovuta rapportare nell'ultimo anno.

Non voleva diventare madre, ha pensato all'aborto poi ha accettato la cosa. Giubilo e felicità. Foto di culle, fiocchi, panze, passeggini. Toto nomi. Tutto il pacchetto, insomma.

Ha avuto una gravidanza serena fino all'ottavo mese poi poco liquido amniotico, pupo podalico, placenta invecchiata, letto, punture, cesario programmato.  

Poverina, sta soffrendo. Vedi cara? Nessuno ha la via spianata. 

Inspirare, espirare. Contare fino a dieci, famo venti, anzi cinquanta. 

A me dispiace per lei, sul serio eh. Mica lo dico per purificarmi la coscienza, ormai quella è zozza e zozza resta. Però, 'orcocazzo, le due situazioni, mia e sua, non sono in alcun modo paragonabili. Sono due diversi dolori, diverse ansie, diverse reazioni. 

Diverse vite.

L'infertilità è una cosa a parte. Solo un'infertile capisce un'infertile. Nessuno dovrebbe tentare di consolarci spiattellandoci storie di appanzate per divina concessione. Indipendentemente da come finiscono.

Siamo fragili, cazzo. Maneggiateci con cura e, prima di parlare, pensateci. Bene. 

giovedì 4 dicembre 2014

I miei tr... tre... trent antani anni

Mi hanno svegliata alle otto e zerotre intonando al telefono una versione rap di tanti auguri a te, intervallata da qualche risolino stridulo. Io, coi sensi ancora ovattati, prede inermi di un inflessibile Morfeo, sono comunque riuscita ad apprezzare la performance, sbilanciandomi a fine esibizione con un siete fantastici!

Coredezia.

Ebbene sì, ci siamo. Non posso più sbandierare la mia appartenenza agli enti a difesa della mia precaria posizione. Lavorativa, famigliare, mentale. Una condizione di vita, in pratica. Addio vecchie glorie, addio ombretti glitterati, addio monti sorgenti dall'acque... no scusate quella è un'altra storia, una che finisce bene.

Per quanto io sia grata d'esser nata decembrina, così da poter rimandare per un anno intero il consueto passaggio ad un numero sempre più importante, mi rendo conto che, alla fine, pure gli ultimi arrivano. Triste realtà. Pure se, ora che ci penso, questo potrebbe essere quasi un augurio, nel mio caso. I tipi svegli sanno di cosa parlo.

In ogni caso laggente sta tentando di farmela prendere bene. Per esempio l'USI ieri s'è presentato col regalo migliore di sempre, questo:



Ora mi ricordo perché l'ho sposato.

Mi sono messa a saltellare sul letto come una ragazzina che incontra Justin Timberlake (sempre che vada ancora di moda tra le teen, non saprei) appena ho aperto la scatola.

Più di tutto mi piace il messaggio: non dimenticare chi sei. Una Princess resta una Princess anche quando è attraversata da una profondissima crisi esistenziale. 

Le mie Sister progettano una torta a sorpresa, perché non si sono rassegnate all'idea che io non voglia festeggiare.

Vedete, il problema dei trenta (cazzo, l'ho scritto!) sono i bilanci. Bilanci che, non so perché, non si fanno ai 23, 27, 29. E questo, manco a dirlo, è il periodo in assoluto peggiore per i miei bilanci. Quindi faccio finta che i 30 non esistano, che siano solo un numero.

Il mio ex collega bologneshe mi ha scritto non farti prendere dall'ansia, questa è l'età della consapevolezza.

Minchia, è proprio questo il dramma. Si viveva così bene nell'ignoranza.

lunedì 1 dicembre 2014

Il compromesso

La mia amica EffeEmme è così felice d'essersi riappropriata del tipo che per sette noiosi e tormentati anni ha considerato sua legittima proprietà che continua a postare su Facebook citazioni d'amore trafugate da libri melensi e foto di arredamenti d'interni.

La Sister G., invece, continua imperterrita la sua battaglia per la romanticizzazione del suo nuovo grande uomo. Lei pretende sole, cuore e amore, lui dice di non essere abituato a mettersi a nudo, dimostrando i suoi sentimenti, perché non ha mai avuto uno straccio di modello di rapporto normale da prendere come esempio in vita sua.

La Sister O. ha preteso, ottenendolo, un radicale cambiamento dal suo ormai datato amore. Se non fosse che, nel frattempo, è cambiata pure lei sarebbe quasi felice. Cambia idea riguardo la possibilità di andare a vivere con lui con la stessa velocità con cui io cambio umore nell'arco di un'ora.

Queste tre storie hanno una cosa in comune: il compromesso.

Togli qualcosa, metti qualcosa, aggiusti il tiro, abbassi gli obiettivi, rinunci, amplifichi, ti sforzi e alla fine ottieni. Sì, ma cosa ottieni?

Di certo non quello che hai sempre cercato, voluto, sognato. Solo qualcosa che gli somiglia. Forse.

Sono seduta sulla mia sedia girevole similpelle a mezzanotte e un quarto di sabato sera. Lui è in camera che guarda la tv. Non posso fare a meno di chiedermi se non sia il caso che anche io inizi a cedere al compromesso.

Poi però penso che ad essere realmente compromessa sarebbe una cosa a cui ancora non sono, ancora, disposta a rinunciare: la mia felicità.

Così torno sui miei passi e torno a pretendere l'impossibile.